
Il tema “fibre impiegate nell’abbigliamento” mi sta molto a cuore, per questa enorme passione che abbiamo io ed Ale per la lana che ci spinge a documentarci ed a farci sempre tante domande.
Mentre nel settore alimentare sono stati fatti passi da gigante, culturalmente il livello medio è salito tanto, molte famiglie oggi orientano gli acquisti in ambito alimentare verso il km zero, il piccolo allevamento vicino casa piuttosto che l’autoproduzione di ortaggi, nel settore dell’abbigliamento le contraddizioni ed i controsensi la fanno da padrone.
La mia sarà una lotta contro i mulini a vento, forse si, ma nel mio piccolo voglio provarci, il mio semino lo voglio piantare… Magari un piccolo bosco nascerà!
Nel settore tessile oggi vengono valorizzati prodotti come ecosostenibili, bio o veg ma che in realtà non lo sono!
Mi spiego, alcuni produttori della grande distribuzione “spacciano” prodotti in cotone come bio anche se prodotti in Bangladesh. Ora io mi chiedo, prima di tutto quale sarà la normativa sul bio in Bangladesh ed i relativi controlli? Poi, dovendo viaggiare dal Bangladesh fino in Italia (carburante) si può ancora parlare di bio? Inoltre, essendo prodotti tinti/colorati, anche le tinture sono bio? Assolumente no! Quindi trattasi di truffa ai danni dei consumatori che, se fossero un po’ più attenti e consapevoli, non dovrebbero cascarci!
Altro esempio e poi mi fermo, sull’argomento potrei scrivere per ore, quando si parla di “lana”, visto che la produzione si è totalmente spostata verso il mondo industriale, a discapito dei piccoli allevatori che fanno i salti mortali per sopravvivere, quanti produttori di filati in lana oggi possono riempirsi la bocca con le parole “etica” o “rispetto dell’ambiente”?
Non c’è sul mercato un prodotto “lana” realmente etico, sul quale non sia stato costruito un meccanismo mediatico fatto di contraddizioni. Vi sono filati venduti come bio che provengono dalla Nuova Zelanda. Filati prodotti da materia prima sottopagata a chi la produce (allevatori), ma sottopagata a tal punto che un allevatore preferisce smaltirla che come rifiuto (o farla sparire) piuttosto che venderla. Allora in una filiera in cui non si rispetta l’allevatore si può parlare di etica?
In una filiera in cui la tracciabilità del prodotto “dalla pecora al gomitolo” è pressoché introvabile sul mercato, si può realmente parlare di ecosostenibilità, rispetto ed uguaglianza?
Un filato in lana realmente etico dovrebbe garantire: il benessere degli animali, di coloro che li accudiscono, il loro rispetto, anche economico, il minor impiego possibile di risorse per la trasformazione (meno km=meno carburante) , l’utilizzo di sostanze ecologiche per i lavaggi e per l’alimentazione dei macchinari, nonché la trasparenza nei confronti del consumatore finale, ottenibile sicuramente limitando al minimo i passaggi nella filiera.
Ecco perché sono anni che mi frulla in testa il progetto “sibillana” che oggi ha un nome, è un marchio depositato e sta prendendo forma, la forma giusta!
La forma di cui andare fieri!
Seguiteci! Ne sentirete molto parlare … ?